L’age d’or, il secondo sconvolgente film di Luis Buñuel

 

Torniamo nel nostro consueto appuntamento cinefilo ancora una volta sul versante surrealista (se non l’avete letto fiondatevi sul precedente articolo La stregoneria attraverso i secoli!). Considerato l’unico film davvero surrealista, L’age d’or (1930) è pura avanguardia. Il secondo film del regista spagnolo Luis Buñuel oscilla tra il sogno e la pura provocazione. Assente la continuità narrativa, vi possiamo comunque individuare un focus centrale: l’amor fou!

Ma di certo non si tratta dell’amore del quale ci parla Dante nel IX canto del Paradiso, quello che, sublimando la carnalità innalza l’uomo all’amore per Dio, qui si tratta di puro e semplice desiderio. Insieme a Un chien andalou (che durava soli sette minuti rispetto a questa seconda pellicola di ben sessantasette) costituisce il manifesto del surrealismo cinematografico. L’age d’or è condito, come sempre nei film del regista naturalizzato messicano, di un’accusa senza appello alle convenzioni borghesi e alle relative castrazioni dell’apparato puramente biologico ed emozionale dell’individuo.

La strabordante carica rivoluzionaria è senza eguali, lo scandalo all’epoca fu naturalmente enorme; la pellicola fu messa all’indice dal capo della polizia parigina e tutte le copie furono sequestrate (un po’ come successe con Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini o con Ultimo tango a Parigi di Bertolucci).

Nel film un lui e una lei sono letteralmente consumati dalla reciproca attrazione fisica, in un delirio sensuale senza precedenti, che tuttavia non riescono a soddisfare. Noi spettatori veniamo attaccati visivamente da una carrellata di immagini eclatanti! Abbiamo nell’ordine: un Cristo violentatore che esce dal castello delle 120 giornate di Sodoma, scheletri di vescovi, fiamme divampanti, giraffe gettate dalla finestra, borghesi con il volto infestato dalle mosche fino a una conturbante fellatio al dito del piede di una statua.

Il film è un delirante saggio contro i simboli della borghesia e del capitalismo, contro l’ordine costituito incarnato dallo stato, dalla chiesa e dall’esercito, contro l’oppressione istituzionalizzata dell’intimo sentire (si veda Oasis), che solo le dérèglement de tous les sens (per citare Rimbaud) può opporvisi. L’opera inizia con un documentario sugli scorpioni per poi cominciare a stravolgere qualsiasi regola narrativa e convenzione delle tipiche aspettative di fruizione; un gioco disorientante, dove spazio e tempo si confondono e dove lo stile, quasi asettico, della regia va a evidenziare per contrasto l’incredibile e sconcertante follia delle immagini presentate. Dove alle precedenti possiamo aggiungere: i due amanti che sguazzano nel fango cercando di avere un rapporto sessuale, una mucca comodamente adagiata su un letto, un cavallo che baldanzoso traina un carro (dentro un salotto aristocratico!) …

Non stupisce che i fascisti fecero irruzione nel cinema Studio 28, dove fu proiettato, distruggendo l’edificio. Per la prima proiezione pubblica Parigi dovette attendere 61 anni! Ma per la morale dell’epoca l’esasperante forza visiva delle immagini, il rifiuto di qualsiasi compromesso ideologico, l’indegna lussuria, la follia fatta manifesto concettuale sono i prodromi della creazione di una nuova forma di linguaggio che, seppur calato in un uso scarno e ‘oggettivo’ dei movimenti di macchina (non abbiamo quelli ‘stilosi’, alla Mizoguchi per intenderci, pensiamo a Gli amanti crocifissi) assurge determinati canoni formali a urlata propaganda sovversiva (seguendo i dictat del Secondo manifesto del surrealismo).

Buňuel lo definì un film «contro tutto», visceralmente anarchico e graffiante nei confronti di qualsiasi convenzione sia essa familiare, culturale, religiosa o estensivamente borghese (temi che ritroveremo in altre sue straordinarie opere come Viridiana, I figli della violenza, Lui quest’ultimo un vero attacco al concetto borghese del ‘possesso’), contro qualsiasi limite posto all’espressione spontanea dell’individuo (in amore e passione soprattutto). Il film fu finanziato dal visconte di Nailles (che rischiò la scomunica) ed uscì, dopo la devastazione dello Studio 28, a New York, solo nel 1950, ben vent’anni dopo. La pellicola «utilizza la macchina da presa come uno specchio e rifiuta i procedimenti tipici dell’avanguardia (flou, sovrimpressioni, ralenti, accelerazioni) per dare alle sue idee la forza straordinaria dell’evidenza» – Lourcelles in Mereghetti 2008.

Una delle prime pellicole con sonoro in Francia, è un film sicuramente unico e imbevuto di una creatività immaginifica dove Dalì suggerì solo qualche idea e Max Ernst fece un piccolo cameo. Opera tra le più scioccanti di sempre, dove si susseguono soldati alla vigilia di una battaglia, folle inferocite, una donna irritante, dialoghi senza senso (altro che Tarantino!) e mendicanti ciechi presi a pugni senza ragione, il tutto per proporre su un piatto d’argento: violenza, chierici e borghesi soffocanti e l’estrema frustrazione sessuale.

Buňuel insomma sembra comunicarci tutta la sua rabbia, tutto il suo inusitato feticismo (per i piedi ad esempio, come in Lui) che quasi scade in un richiamo mortifero. Eppure, il film è sulla passione (era un regalo di compleanno del conte Charles a sua moglie)! Dopo questo progetto il connubio lavorativo con Dalì fu interrotto (leggenda vuole, infatti, che già il primo giorno di riprese Buňuel inseguisse Dalì con un martello).

Enorme metafora che precede un capolavoro come Il fascino discreto della borghesia (1972) rappresenta, con due amanti che succhiano le rispettive dita, un richiamo all’attrazione erotica che soverchia le convenzioni dell’epoca.

  • Consigliati: Un chien andalou (1929), I figli della violenza (1950), Lui (1953), Viridiana (1961), Il fascino discreto della borghesia (1972), Ultimo tango a Parigi (1972), Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975),

L’AGE D’OR

Regia: Luis Buňuel

Cast: Gaston Modot, Lya Lys

Francia 1930

Romuald Marchionne

Letterato di formazione e fumettaro da sempre, amo il cinema in ogni sua singola sfaccettatura, genere e stile, periodo storico, regista e nazione. La folgorazione è avvenuta con Furore (The grapes of Wrath, 1940) di John Ford. In seguito I guerrieri della notte (The Warriors, 1979), con i sette minuti più belli della storia del cinema, mi hanno rapito per sempre nell'infinito universo della settima arte. Nella mia top 10 c'è di tutto, anche se il realismo poetico francese degli anni '30 ha un posto speciale nel mio immaginario...

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